Teatro

Il senso della tradizione secondo Latella

Il senso della tradizione secondo Latella

Complessa, articolata e polifonica, la nuova creazione scenica di Antonio Latella, progettata e realizzata all’interno del segmento autunnale del Napoli Teatro Festival Italia, è la prova inconfutabile della vita che ancora vigorosamente pulsa nei precordi del teatro contemporaneo, una vita fatta di materia rappresentata ma anche d’intenzione creativa, di forma e contenuto.

C’è del pianto in queste lacrime assesta con consapevolezza autorevole un netto manrovescio sul volto rugoso ed omertoso della  passiva ed improduttiva tradizione drammaturgica locale, quella che ha nella sceneggiata l’apice di devastazione artistica e morale; Latella, coadiuvato nella scrittura per la scena dalla brava Linda Dalisi, riesce a restituirci l’immagine ripugnante di una tradizione parassitaria che attinge ed eleva a sistema di valori, le peggiori abitudini delle famiglie napoletane, quelle famiglie che, definendosi come enclavi primitive sempre più simili a clan malavitosi, fondano la propria mitografia umana sulla sacra rappresentazione iterata  e spettacolarizzata della volgarità e dell’ipocrisia.

Alla consueta immagine consolatoria e borghese della “napoletanità” artistica  defilippiana, Antonio Latella sostituisce un’immagine  autentica e raccapricciante, l’immagine di una città in cui la tradizione, eletta a regola, inibisce qualsiasi innovazione, reiterandosi e replicandosi in un repertorio di luoghi comuni e di costumanze che sembrano essersi insignoriti della città, del suo popolo, della sua pur antica e raffinatissima cultura.

Di fronte ai loschi figuri del clan familiare, insetti che si muovono e strisciano sull’orizzontalità interstiziale di una meschina quotidianità di apparenze, si erge nella sua verticalità spaziale e spirituale il “diverso”, Edward mani di forbice, simbolo di una prospettiva che resiste ai pericoli del conformismo e, pur subendo lo scherno che tocca a chi è incompreso ed emarginato, coglie tutto il potenziale eversivo e rivoluzionario del suo falso handicap, imponendosi per quel suo soggettivo elemento di critica che – solo – potrebbe salvare la città.
D’altronde Edward, che sembra ad inizio spettacolo la creatura abnorme su cui si deve fissare lo spaesamento dello spettatore, è gradualmente circondato da creature così orrende da risultare ben presto molto meno mostruoso di loro.

Insomma, una compagnia affiatatissima, che “funziona” in scena con la precisione e la complementarietà degli ingranaggi più sofisticati, ha portato sui legni del palco del Napoli Teatro Festival Italia una pièce che sembra un virile ammonimento diretto proprio a quella stessa platea – platea intesa nell’accezione più ampia del termine (platea teatrale ma anche platea urbana, platea sociale, platea politica, ecc.) – che prima da complice superba, poi da vittima inconsapevole, è  triste protagonista del valzer degli stereotipi che umilia ed emargina chi si sottrae responsabilmente alla “casta” dell’establishment gattopardesco di turno, tentando nuovi sentieri, nuove soluzioni e nuovi accordi per rivitalizzare qui ed ora l’orizzonte dell’arte.